Diabete e Cuore

Diabete e Cuore

Diabete e malattie cardiovascolari: la correlazione.

Che diabete e malattie cardiovascolari siano strettamente collegati tra loro non è un mistero. Anzi, sono molteplici le dimostrazioni del ruolo che il diabete con glicemia fuori controllo – tecnicamente, con emoglobina glicata (HbAc1) stabilmente superiore al 7% – ha nel rischio di andare incontro a disturbi cardiaci come angina, coronaropatia, o a infarto del miocardio.

L’angina è un dolore al torace provocato dall’insufficiente ossigenazione del muscolo cardiaco a causa di una transitoria diminuzione del flusso sanguigno attraverso le arterie coronarie. Il dolore anginoso, che inizia lentamente, giunge all’apice e poi sparisce nell’arco di 15 minuti; il dolore può propagarsi anche agli organi prossimi al torace.

La classificazione dell’angina è principalmente di due tipi:

  • angina pectoris stabile, dove la frequenza dell’insorgenza ed intensità del dolore sono prevedibili ed è una condizione cronica;
  • angina pectoris instabile, dove la frequenza dell’insorgenza è sempre più crescente, così come l’intensità del dolore, inoltre in questa forma non è prevedibile.

Viene rinominata anche come “sindrome pre-infarto” in particolare la prima insorgenza di angina in un individuo è sempre, per definizione, instabile (angor instabile primario).

Con la locuzione infarto del miocardio (IMA) si intende la sindrome coronarica acuta dovuta all’ostruzione di una arteria coronarica a seguito della fissurazione del cappuccio fibroso di una placca ateromatosa con formazione di un trombo occludente e conseguente necrosi del tessuto miocardico.

Il quadro tipico dell’infarto si presenta come un dolore al torace (il dolore è riferito in modo vario, es. come una pinza che stringe, una pietra che opprime..) e irraggiato al braccio sinistro. Tuttavia esistono molte variazioni, anche se meno frequenti: ad esempio, l’irraggiamento può essere verso l’alto (dolore al collo, ai denti o addirittura alla testa) a entrambe le braccia, al braccio destro o alla bocca dello stomaco. Il dolore può essere epigastrico, soprattutto nell’infarto posteriore. Molti pazienti riferiscono il dolore come accompagnato da sensazione di morte imminente.

Tipicamente questi sintomi sono intensi, prolungati, non influenzati dal riposo o dai derivati nitrati. Vi sono però infarti che si presentano in modo attenuato. I sintomi tipici dell’infarto miocardico acuto sono presenti nell’80% dei casi, in quanto il 15-20% degli infarti è asintomatico, soprattutto nei diabetici e negli anziani.

  • Affaticamento, debolezza, angoscia, sintomi vagali (sudorazione, nausea, vomito), eventualmente febbricola.
  • Aritmie nel 95% dei casi, soprattutto fibrillazioni ventricolari.
  • Spesso caduta della pressione arteriosa , ma in caso di stimolazione simpatica, la pressione può essere normale e financo leggermente elevata.
  • Il polso è normale, ma può essere rapido, o lento.
  • Segni di insufficienza cardiaca o di scompenso (1/3 dei pazienti): dispnea, ronchi alle basi polmonari, eventualmente edema polmonare
  • Nei più anziani, segni di problemi di perfusione cerebrale, come confusione mentale.

Fortunatamente, nuove conoscenze sulla fisiopatogenesi del danno cardiovascolare nel diabete di tipo 2 stanno aprendo interessanti prospettive in ambito terapeutico, sia come prevenzione che come terapia specifica del danno. Di fronte a queste nuove opportunità il laboratorio viene ad occupare una posizione centrale, in quanto nuovi markers biochimici e genetici permettono di ottenere informazioni decisive nell’intervento clinico. La complicanza cardiovascolare nel diabete è un evento frequente e di elevato impatto sociale e sanitario. Gli studi epidemiologici hanno chiaramente dimostrato come il paziente diabetico sia più esposto ad incorrere nel corso della sua vita, rispetto alla popolazione non diabetica, in un accidente coronarico maggiore come l’infarto del miocardio. Tale eccesso di rischio può essere valutato in 3 volte nell’uomo e in 4-5 volte nella donna. È stato addirittura proposto di considerare il diabetico alla stregua di un soggetto non diabetico che abbia già presentato un infarto.

Sul piano clinico è possibile affermare che un paziente diabetico su due presenta segni elettrocardiografici o ecocardiografici o sintomi significativi di sofferenza coronarica. A questi dati si possono anche aggiungere evidenze scientifiche che dimostrano come la frequenza della rottura del cuore, dopo infarto, sia doppia nei diabetici rispetto ai controlli e come gli infarti multipli sono evidenti nel 37% degli infarti nei diabetici. Fattori quali età, durata del diabete, ipertensione e presenza di altre complicanze micro e macro angiopatiche influenzano negativamente sia la mortalità immediata sia la sopravvivenza dopo 5 anni. L’angina pectoris è anormalmente frequente tra i diabetici, con prognosi più infausta che nei soggetti non diabetici. Anche l’ipertrofia cardiaca è assai frequente. Uno studio su vasta scala attualmente in corso conferma come l’ischemia miocardica sia una delle complicanze a cui il diabetico è più esposto. Il diabete appare pertanto un fattore decisivo per la malattia cardiaca stessa.

La mancanza di una identificazione definitiva dei meccanismi patogenetici che sottendono tale complicanza non ha permesso a tutt’oggi, un corretto sviluppo delle strategie terapeutiche e, soprattutto, preventive. Lo studio ed il trattamento dei fattori di rischio tradizionali ha sicuramente diminuito l’incidenza di tale complicanza, ma si è ancora molto distanti da target di efficacia terapeutica desiderabili. Prendiamo ad esempio uno dei primi e più accreditati obiettivi della terapia nel paziente diabetico, ossia la normalizzazione della glicemia. In effetti esiste un forte background fisiopatologico che permetterebbe di considerare la persistente iperglicemia una delle cause più importanti nello scatenarsi dell’evento arteriosclerotico. Se quindi il trattamento di un singolo fattore di rischio (iperglicemia, ipertensione, dislipidemia) non ha dato la significativa riduzione del rischio cardiovascolare che ci si aspettava, l’approccio sistematico applicato all’insieme dei fattori di rischio sta dando risultati certamente più efficaci. Studi di intervento che hanno agito sullo stile di vita assieme a trattamenti combinati tesi alla normalizzazione della glicemia, della pressione arteriosa, della dislipidemia, della microalbuminuria, specie se associati a trattamenti anti-infiammatori, stanno dando risultati sicuramente più soddisfacenti. È quindi opportuno che la prevenzione della complicanza cardiovascolare si basi su un approccio multifattoriale in cui siano presenti tutti i protagonisti del danno.

Recenti studi hanno suggerito come l’evento infiammatorio possa essere proposto quale elemento unificante di alterazioni di sistemi differenti tutti concorrenti alla formazione della placca ateromasica e del danno circolatorio. Dati clinici e sperimentali suggeriscono che i mediatori dell’infiammazione (tra i più importanti l’ IL-6 e il TNF alfa), giocano un ruolo fondamentale sia nella genesi della malattia diabetica che nell’aterogenesi e nella trombosi diabetica. Alcuni reattanti di fase acuta quali la PCR vengono infatti proposti quali predittori di patologia ischemica cardiaca. I mediatori dell’infiammazione possono inoltre interagire con le componenti di molte vie metaboliche e sistemi biochimici, quali la fibrinolisi, l’espressione di molecole di adesione, il metabolismo lipoproteico, lo stress ossidativo. Queste teorie unificanti rendono quindi auspicabile un approccio multilivello a cui non possono mancare le recenti acquisizioni in campo genetico.

È tuttavia importante sottolineare che risultati preliminari di un recente studio, lo Studio DYDA (Left ventricular DYsfunction in DiAbetes), promosso dai Centri Studio dell’Associazione Medici Diabetologi (AMD) e dell’Associazione Nazionale Medici Cardiologi Ospedalieri (ANMCO), hanno decretato che il nemico più subdolo per il cuore diabetico non è l’infarto, ma lo scompenso cardiaco. Una forma di malattia cardiaca in grande espansione, che di fatto è la prima causa di mortalità nel nostro Paese (più di 270 i morti al giorno) e rappresenta il maggior costo in assoluto per degenza ospedaliera: oltre 600 milioni di euro ogni anno, con più di 500 ricoveri al giorno.

Infatti, 1 persona con diabete su 2 mostra segni ecocardiografici di disfunzione ventricolare sinistra, la porta d’ingresso nello scompenso cardiaco, senza mostrare alcun sintomo o aver manifestato precedentemente alcun disturbo cardiaco.

Per approfondire – 1

Secondo un nuovo studio americano pubblicato sul numero di aprile del Journal of General Internal Medicine, nonostante i farmaci appartenenti alle famiglie degli ACE inibitori e degli antagonisti dei recettori dell’angiotensina siano in grado di prevenire danni al cuore e ai reni in presenza di diabete, vengono prescritti a meno della metà dei diabetici americani più anziani.

“Sappiamo che questi farmaci salvano vite e fanno risparmiare denaro, eppure vengono utilizzati in meno della metà delle persone che potrebbero trarne beneficio”, ha sottolineato la D.ssa Allison B. Rosen in un comunicato stampa. La D.ssa Rosen, dell’ University of Michigan, Ann Arbor, USA, ha estratto i dati dal 1999 al 2002 del sondaggio National Health and Nutrition Examination. Nel suo studio la D.ssa Rosen riferisce che il campione di pazienti oggetto dello studio era costituito da 742 soggetti diabetici oltre i 55 anni di età, tutti con almeno un requisito per la prescrizione di un ACE inibitore o antagonista dei recettori dell’angiotensina, come la presenza di proteine nelle urine (un segnale di problemi renali), patologie cardiovascolari, insufficienza renale, ipertensione, colesterolo alto o essere fumatore.

Solo il 43% stava assumendo un ACE inibitore o antagonista dei recettori dell’angiotensina.

Anche fra i pazienti che presentavano quattro o più indicazioni per l’assunzione di questi farmaci, la probabilità che venisse loro prescritto un ACE inibitore/antagonista dei recettori dell’angiotensina era pari solo al 53%, “non più alta della probabilità di fare testa o croce”, scrive la D.ssa Rosen.

La Dottoressa aggiunge inoltre che, visto che fra i diabetici vi è un’elevata prevalenza delle indicazioni per la terapia con ACE inibitori o antagonisti dei recettori dell’angiotensina, sarebbe opportuno semplificare le linee guida per il trattamento “ampliando le indicazioni di questi farmaci in modo da estenderle a tutti i diabetici più anziani, indipendentemente dalla valutazione dei fattori di rischio”.

(Reuters Health) 

FONTE: Journal of General Internal Medicine, aprile 2006.

Per approfondire – 2

Le persone che soffrono di diabete dovrebbero tenere sotto stretto controllo i valori della glicemia per evitare lo sviluppo di complicanze cardiovascolari nel lungo termine. Lo ribadisce uno studio norvegese pubblicato sulla rivista Diabetes Care.

I ricercatori dell’università di Oslo, coordinati da Jakob Larsen, hanno seguito per 18 anni 39 pazienti affetti da diabete di tipo 1 e hanno osservato l’influenza del controllo glicemico sullo sviluppo delle complicanze cardiovascolari. Per 14 anni i pazienti erano sottoposti alla terapia insulinica e ogni anno venivano misurati i valori dell’emoglobina glicosilata (il parametro che misura i livelli degli zuccheri nel sangue nel lungo periodo). Inoltre i partecipanti venivano sottoposti ad una batteria di test per valutare la funzionalità cardiaca. I ricercatori hanno osservato che i pazienti con valori di emoglobina glicosilata inferiori all’8,4 per cento avevano una funzionalità cardiaca ottimale, mentre quelli con valori superiori mostravano problemi a livello del sistema nervoso autonomo cardiaco.

“Un non corretto funzionamento del sistema nervoso autonomo cardiaco aumenta il rischio di mortalità nei pazienti diabetici”, hanno commentato gli autori dello studio, “tale rischio può essere notevolmente ridotto tenendo costantemente sotto controllo i valori glicemici”.

Bibliografia.

FONTE: Larsen JR, Sjoholm H, Berg TJ et al. Eighteen years of fair glycemic control preserves cardiac autonomic function in type 1 diabetes. Diab Care 2004;27:963-6.

I video approfondimenti